LISA CALABRESE
MEIN BERLIN
Sei su una falsa prospettiva. Anzi, no... è quella foto che ancora non riesci ad orientare su tre assi che sembrano (dovrebbero?!) essere due. Come a rimarcare che è lo spazio e non il piano la tranquilla, ma non rasserenante, insenatura del fotografare di Lisa Calabrese. La “sua Berlino” non sarà mai la mia, forse neanche la vostra. Meglio così! Meglio. Oggi a Berlino non ci sono più quei manifesti (che amo immaginare abusivi) a sbocconcellare margini di stipiti, a coprire le crepe nel legno di una porta che ha respinto od accolto, negato accessi o favorito scambi, aperto menti o chiuse speranze, ma comunque sfidato del semplice ma mai cadenzato tempo. Berlino nelle foto di Lisa è,stranamente, quanto di più iconografico si possa immaginare e, nel contempo, di quanto più distante dalle sue peculiarità dei vari reali e dei vari immaginari che appartengono a tedeschi od europei non berlinesi. Strano. Molto strano, ma è il miracolo degli “ossimori fotografici” di chi, come Lisa, fotografava nel secondo millennio e fotografa nel terzo con differente tecnologia ed immutato sguardo. E al termine della mostra resta solo il contrasto acceso di una nera “entrata”, declinata in omnicomprensiva lingua, a farmi comprendere che devo uscire, quasi scappare verso altri pensieri. Pensieri che lasciano queste fotografie, ma non prima di averle riposte tra i bei ricordi, tra le apprezzate emozioni, tra le immagini che si vorrebbe tentare di fare proprie incorniciandole su rassicuranti pareti.
E scappo via, forse in attesa di altri mutevoli diaframmi di Lisa Calabrese.
Alfonso Russi
You are on a false perspective. No, wait… it’s this picture that you can’t manage to align on three axes, that seem to be (should be?) two. As if to indicate that space, and not the plane, is the quiet, but not tranquillizing, dimension of the photography of Lisa Calabrese. “Her Berlin” will never be mine, maybe not even yours. It’s just as well. These days in Berlin you do don’t see many of those posters (which I like to imagine unauthorized) nibbling at the edges of jambs, hiding the cracks on doors that once shut out or took in, denied or encouraged exchanges, opened minds or turned down hopes, but in any case challenged the simple but uncadenced passing of time. Oddly enough, in Lisa’s photographs Berlin is as iconographic a subject as any, and yet far removed from the individual reality or imagery of non-Berliner Germans or Europeans. This is strange. This is very strange, but it is the miracle of the “photographic oxymora” of those who, like Lisa, took pictures during the second millennium and take pictures during the third, with a different technology but the same outlook. And at the end of the exhibition there remains only the vivid contrast of a black “entrance”, spoken in an all-inclusive language, that tells me it is time to go, almost escape toward other thoughts. Thoughts that leave these photos behind, but not before filing them among the pleasant memories, among the appreciated emotions, among the images that you would like to make your own and hang on reassuring walls.
So I go away, looking forward to more stimulating shots by Lisa Calabrese.