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ALICE MICHILLI

STORIE DI BAMBOLE

 

Tutti nella vita abbiamo avuto almeno una bambola. A lei sono legati tanti ricordi della nostra infanzia. Tuttavia il periodo che ci lega a loro è fugace, e la vita le porta lontano, di mano in mano, dove non avremmo immaginato. Quando per la prima volta mi sono trovata di fronte ad una di queste, quello che mi ha colpita è stato il paradosso che, inconsapevole, esprimeva: un giocattolo tra i più antichi e amati mai realizzati, che per colpa degli eventi, la storia aveva trasformato in un oggetto spaventoso. L’inquietante immagine che mi si presentava si discostava completamente dai ricordi che quella bambola aveva conservato e suscitato; era stata desiderata, donata, abbracciata, amata e infine dimenticata. Per questo motivo ho cominciato a notarle ovunque si trovassero, nelle città, nei mercati, nelle 
spiagge; evitate dagli sguardi degli altri passanti, e ho iniziato a raccogliere e mettere insieme le loro foto, perché ognuna regalasse di sé un’ultima immagine di tenerezza, per qualcuno, da qualche parte. Desidererei che chi si ritroverà a guardare una di queste foto, dopo un primo senso di disagio, dedicasse loro un secondo sguardo, più attento e curioso. Imparare a riconoscere le loro storie significa imparare a riconoscere che anche ogni persona è il prodotto di una storia.

 

We have all owned at least one doll in our lives. Many of our childhood memories are attached to them. However the time we spent with them is ephemeral, and life takes them far away, from hand to hand, to places we couldn’t even imagine. When I first found myself in front of a cast-off doll, I was struck by the paradox it ‘unconsciously’ expressed: a toy, amongst the most beloved and ancient ever crafted by human hands, whose history and circumstances had turned it into a frightening object. The disquieting image before me was utterly unrelated to the memories that that doll had aroused and preserved – she had been desired, donated, hugged, loved and eventually forgotten. For this reason I started noticing them whenever and wherever I happened to come across them: in towns, markets, on beaches – avoided by other passersby’s glances. I have then started to collect and put together their photos so that each doll could donate yet another last aura of tenderness to someone somewhere. My hope is that, after an inevitable initial sense of discomfort, the viewer will dedicated them a second look, more attentive and curious. Acknowledging their stories, to me, means acknowledging that there is a story behind every person.
 

 

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